10 giugno 1940: l’Italia entrò in guerra al fianco dell’alleato tedesco. Per i successivi cinque anni gli orrori del secondo conflitto mondiale oscurarono la vita degli abitanti dell’intero globo terracqueo. Anche l’hockey pagò il suo tributo di sangue alla follia umana. Alcune fonti indicano in un numero largamente sottostimato, 34, i giocatori deceduti durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono in realtà diverse centinaia, mentre un numero ancora più alto è quello dei giocatori che hanno vissuto sulla loro pelle la durezza del conflitto. Anche l’hockey milanese fu segnato dal lutto: il 17 agosto 1940, in occasione di una delle prime operazioni militare in nordafrica, il sottotenente Camillo Mussi venne abbattuto mentre era alla guida del suo Savoia Marchetti 79, in seguito denominato “Sparviero”, detto anche “gobbo maledetto” per la particolare conformazione della fusoliera. Cosa lo avesse spinto a vestire i panni dell’aviatore, oggi, possiamo solo immaginarlo. Certamente potrebbe essere stato convinto dall’effimera convinzione della “superiorità” italiana nella conoscenza del volo. Tale idea affondava le sue radici delle imprese del “Vate” Gabriele D’Annunzio, autore di un leggendario volo su Vienna nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, ma anche, e soprattutto, dalle imprese di Italo Balbo, colui che per ben due volte aveva organizzato voli transoceanici in formazione, varcando l’Atlantico nel 1931 per raggiungere il Brasile, e nel 1933, ammarando a Chicago alla guida di una squadriglia di ventiquattro apparecchi S.55X. La sua impresa ottenne un’incredibile risalto in Italia e nel mondo intero tanto che fu ricevuto tra mille onori dagli americani stessi. Gli fu inoltre dedicata una via, la Balbo Avenue, in quel di Chicago, a ricordo di un’impresa veramente sensazionale per l’epoca. La propaganda fascista fece il resto, portando numerosi giovani a entrare nella regia aeronautica per provare l’ebrezza del volo e della velocità.
“Millo” amava sicuramente la velocità: sui pattini, lungo la balaustra, sulla pista ghiacciata, puntando il portiere avversario così come nei cieli, alla guida del suo “sparviero” capace di raggiungere i 410 km/h grazie ai suoi tre motori Alfa Romeo e alla sua struttura leggera, parzialmente in legno e tela. L’azione in cui Mussi perse la vita, curiosamente poche settimane dopo la dipartita di Balbo stesso, è ben documentata: tra le 9:50 e le 10:25 di quel 17 agosto, venticinque S.79 del 10°, 19°, e 33° stormo, decollati dalla base libica di Derna, attaccarono le navi inglesi Waspite, Malaya e HMS Ramillies scortati dall’incrociatore HMS Kent, al rientro da un’operazione di bombardamento su Bardia, Libia italiana, al confine con l’Egitto. I primi cinque S.79 riuscirono a sganciare i loro ordigni seppur intercettati da nove Sea Gladiators della marina inglese. Il secondo gruppo di bombardieri fu accolto da un numero superiore di Gladiators ma soprattutto da un unico “Hurricane” pilotato da John Lapsley. Era la prima volta che questo apparecchio “ingaggiava” con gli S.79 e il pilota britannico riuscì a constatare come le armi a sua disposizione fossero efficaci, abbattendo ben tre velivoli italiani. Il primo a precipitare fu l’apparecchio “57-9” guidato dal tenente Gino Visentin, seguito da quello di Camillo Mussi alla guida del velivolo “56-7”. Un terzo velivolo il “56-9” fu costretto ad un atterraggio di emergenza. Il suo equipaggio composto dal Tenente Arturo Lauchard, dal tenente Vittorio Ceard e dal Sottotenente Bruno Rossi fu fatto prigioniero dagli inglesi. Il velivolo sequestrato e infine portato ad Alessandria d’Egitto dove fu esposto come trofeo di guerra.
Altri due velivoli italiani furono danneggiati, in particolare il “56-2” era guidato dal sottotenente Luigi Venosta, altro giocatore milanese, compagno di Mussi in mille occasioni non solo vestendo la divisa del Milano o quella della Nazionale. Il nostro fu decorato con la medaglia d’argento al valore militare, per essere riuscito a rientrare fra le linee italiane malgrado gli ingenti danni subiti dal suo apparecchio. L’azione che vide Mussi e Venosta protagonisti viene così descritta dallo scarno bollettino di guerra del regio esercito uscito in data 18 agosto: “… In Africa settentrionale, forze navali nemiche hanno sparato non meno di trecento colpi di grosso e medio calibro contro Bardia e verso l’interno cagionando un morto e undici feriti fra le truppe, I nostri bombardieri si sono immediatamente portati all’attacco, impegnando altresì battaglia contro formazioni aeree avversarie accorse in aiuto delle navi nemiche. Risultano abbattuti sette aerei nemici tipo Gloucester Gladiator, più due altri probabili. Tre nostri velivoli mancano.”
E tra questi purtroppo, come raccontato, quello di Camillo Mussi, giocatore capace di segnare tre reti nella finale del campionato 1938 sotto il falso nome di Prati per non incorrere in sanzioni da parte delle autorità militari che non gli avevano concesso il nullaosta.
“Millo” non fu tuttavia il solo hockeysta italiano a perire durante il secondo conflitto mondiale. Tra coloro che furono protagonisti dei primi passi del movimento italico trovarono infatti la morte altri due uomini. Il primo in ordine di tempo fu Tancredi Fassini, cui la sorte riservò una fine simile a quella di Mussi. La famiglia Fassini era una delle più ricche e influenti nell’Italia del regno. Nato il 27 dicembre 1900 Tancredi crebbe frequentando il circolo Pattinatori Torino e nel 1924 entrò a far parte della rappresentativa Nazionale che fece il suo esordio in una competizione internazionale, l’europeo organizzato a Milano. Al marzo di quell’anno risale anche un’unica partita, persa 5-0, giocata da rinforzo in maglia milanese, un amichevole contro una formazione mista Spagna/Francia. Allo scoppio della guerra Tancredi Fassini era un ingegnere nonchè pilota nella regia aeronautica. Alla notizia della morte della baronessa Adele Stella, sua madre, in seguito ad un raid aereo alleato su Pisa il 31 agosto 1943, decise di prendere un velivolo per raggiungere la città toscana ma precipitò prima di arrivare a destinazione, il 4 settembre 1943. Un anno dopo sorte simile sarebbe toccata a Guglielmo Jervis. Nato “per sbaglio” a Napoli nel 1901 si era laureato in ingegneria nel capoluogo lombardo. Durante gli studi ebbe modo di frequentare il gruppo di universitari che, di fatto, fondarono L’Hockey Club Milano, tanto che negli annali risulta nella prima formazione campione d’Italia, pur senza aver preso parte alla partita con il Cortina valido per l’assegnazione del titolo. Nel 1935 Guglielmo si trasferì ad Ivrea, avendo trovato lavoro presso la Olivetti. Nel frattempo, essendo alpinista di ottimo livello fece parte del Club Alpino Accademico Italiano. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 scelse di unirsi alla resistenza piemontese, nelle fila del gruppo “Giustizia e Libertà” e, proprio in virtù delle sue qualità alpinistiche, svolse un prezioso lavoro di “collegamento” portando dispacci attraverso luoghi impervi e poco agevoli ai più. Jervis fu arrestato dalle SS l’11 marzo 1944 e condotto presso le carceri torinesi. Impossibilitato a liberarsi dei documenti compromettenti che aveva con sé fu giustiziato il 5 agosto 1944 a Villar Pellice dopo cinque mesi di torture e angherie. Accanto al corpo di Willy, fucilato e infine impiccato ad un albero, fu ritrovata una bibbia su cui aveva avuto modo di incidere la seguente frase: “non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea”. Anche Jervis, come Venosta, è stato decorato, ricevendo postuma nel 1950 la medaglia d’oro al valor militare. La montagna che tanto amava lo ricorda attraverso due rifugi, nel parco nazionale del Gran Paradiso e in Val Pellice, altra terra legata a doppio filo all’hockey italiano.
Avversari di Mussi e Venosta sul ghiaccio nei derby milanesi erano stati i fratelli Ball e Gordon “Gordie” Poirier che nel 1936 avevano contribuito a preparare la nazionale italiana in previsione delle Olimpiadi di Garmisch. A questo evento è legato un primo episodio che, seppur non direttamente connesso alla guerra, lascia ben intendere gli eventi di quegli anni. Il più forte dei fratelli Ball, l’attaccante Rudi, era una delle stelle più luminose nel panorama hockeystico europeo. Nato a Berlino nel 1911 da padre tedesco e madre lituana di origini ebraiche, sin dagli esordi, dimostrò una classe e una velocità inusuale per l’epoca. Con i fratelli Gerhardt e Heinz nel SC Berliner incantò gli appassionati di tutta Europa. Rudi diventò ben presto insostituibile anche in nazionale con cui vinse la medaglia d’argento ai mondiali del 1930 dietro agli insuperabili campioni canadesi e il bronzo alle Olimpiadi di Lake Placid 1932. Nel 1933 Hitler diventò cancelliere del Reich è già nel mese di aprile varò le prime leggi razziali con le quali limitava fortemente le attività di molti ebrei tedeschi. Lo sport non era da meno tanto che i fratelli Ball decisero di proseguire la propria attività in Svizzera, a St. Moritz. Da lì a poco si spostarono in Italia nelle file dei Diavoli Rossoneri che dominavano in Europa vincendo le Spengler Cup 1934 e 1935. Malgrado i successi personali Rudi Ball non venne inizialmente convocato per le olimpiadi. Le sue origini ebraiche non erano tollerate dal regime che vedeva nei tornei olimpici di quell’anno un evento per far “emergere” la superiorità della razza ariana. Entrò quindi in scena Gustav Jaenecke, attaccante di punta del Berliner e della nazionale tedesca nonché amico di Rudi Ball. Gustav si rifiutò di scendere sul ghiaccio senza il compagno. L’assenza delle principali stelle della squadra avrebbero condannato la Germania ad un ruolo da comprimaria, evento intollerabile per il regime. In virtù di questo alcuni ufficiali nazisti presero contatti con Ball nel dicembre 1935, al termine della Spengler Cup, garantendogli una totale immunità se avesse partecipato alle Olimpiadi ma soprattutto promettendo che il regime avrebbe dato modo ai suoi familiari di espatriare al termine delle competizioni. Ball prese così parte alle gare olimpiche mettendo a segno due gol in sei incontri. La Germania terminò il torneo in quinta posizione ma la famiglia di Ball fu infine libera di emigrare in Sudafrica dove Rudi si trasferì solo nel 1948. I fratelli Ball non furono chiaramente i soli sportivi penalizzati dalle loro origini ebraiche. Abbiamo già raccontato nell’articolo “Saltando nel tempo” le tragiche vicende della famiglia Covo: i fratelli Giulio e Pietro avevano vestito la maglia del Milano sin dalle giovanili. Quando anche in Italia furono emanate le leggi razziali Giulio varcò l’oceano trovando rifugio in Messico mentre Pietro rimase in Italia fino a quando fu costretto ad abbandonare l’università. Partì quindi per il Canada prima di raggiungere i fratelli maggiori. Allo scoppio della guerra, tuttavia, tornò nel paese della foglia d’acero per arruolarsi in marina, prestando servizio attivo negli ultimi anni del conflitto con i gradi di luogotenente sulle navi Esquimalt, Capilano e Stadacona. Anche il canadese Gordon Poirier era tornato in Canada allo scoppio della guerra. Mentre prestava servizio nel Royal Canadian Medical Corps giocò con i St. Hyacinthe Gaulois in Qphl mettendo a segno una media di due punti a incontro. Famoso per il suo forte slap, le cronache del tempo dicono fosse capace di scagliare il disco a oltre 100 miglia orarie, venne ingaggiato dai Montréal Canadiens mettendo insieme 10 presenze in Nhl nel 1939-40. Proseguì poi la carriera militare ad Ottawa in aeronautica e “Gordie” si trovò a giocare con numerosi altri campioni provenienti dalle squadre Nhl. Gli Ottawa Commandos militavano in Québec Senior Hockey League avendo rimpiazzato i Senators. La squadra vinse nel 1942 la Allan Cup, superando in finale un’altra squadra militare, i Victoria Army, che schieravano altri giocatori provenienti dal campionato professionistico. Alcune cronache indicano come autore del gol decisivo nella finale proprio il “nostro” Poirier.
La maggior parte di loro nei mesi successivi varcarono l’oceano per prepararsi al d-day. In Inghilterra, in attesa di scendere sul campo di battaglia, le truppe continuarono a fare ciò che i canadesi sapevano fare meglio: giocare a hockey.
Nel febbraio 1944 nella città di Brighton, dove Poirier aveva giocato tre anni al termine della sua avventura milanese, venne organizzato il campionato canadese militare d’oltreoceano a cui presenziarono numerose personalità tra cui il generale Bernard Montgomery, la cui carriera militare aveva imboccato una strada in ascesa proprio nella campagna nordafricana.
Da lì a poco lo stesso Poirier, con i gradi di capitano, attraversò lo stretto dell Manica per raggiungere la Francia nell’avanzata anglo-americana verso la Germania. Terminata l’avventura militare Gordon tornò a giocare a Brighton entrando a far parte della HOF britannica a carriera non ancora terminata.
Gli intrecci delle battaglie fuori dai palazzi del ghiaccio si interrompono qui… Resterebbe la storia di Harold “Mario” Passerini arrivato a calcare i ghiacci italiani nel 1950 con la maglia del Milano. Una sola stagione prima di tornare a West Springfield, Massachusetts, città che tanti oriundi di ritorno ha dato all’hockey italiano. Rientrato negli States, infatti, Mario si arruolò nell’esercito americano combattendo in seguito due anni nella guerra di Corea e ponendo fine, di fatto, alla sua carriera. Atleta a tutto tondo, aprì con un amico un negozio di articoli sportivi, esistente ancora oggi e gestito dai figli.
Nell’immagine di copertina la nazionale italiana ai mondiali di Praga del 1933. In evidenza Mussi (in ginocchio) e Venosta